Fiori di Bach per bambini

I fiori di Bach sono molto utilizzati per i bambini che soffrono di alterazioni emotive, a volte provocate dalla personalità, altre indotte dall’ambiente o dalle situazioni che vivono. Si tratta di rimedi efficaci e sicuri, senza creare assuefazioni o dare effetti collaterali. Ed è proprio quando si prescrivono ai bambini, o agli animali, che si può dimostrare la loro efficacia e la mancanza di effetto placebo.

I bambini sono puri ed immediati, hanno meno condizionamenti e sovrastrutture, culturali e caratteriali, e proprio per questo rispondono molto più velocemente degli adulti alla forza trasformatrice ed armonizzatrice dei fiori di Bach. Il metodo per la scelta dei rimedi consiste nell’associazione del rimedio floreale allo stato d’animo alterato del bambino. Tra i due e i quattro anni di vita, compaiono di frequente fissazioni o piccole manie riguardo ai bisogni fisiologici.  Ad esempio, c’è il bimbo che non riesce a fare la cacca senza pannolino, quello che manifesta tristezza o paura contemplando il contenuto del vasino, quello che pretende di spogliarsi completamente per paura di sporcarsi. Oppure ci sono bimbi che si ammalano puntualmente ogni volta che c’è in vista un viaggio o una vacanza, altri che vanno in crisi quando cominciano l’asilo, bimbi che hanno crisi di rabbia aggressiva quando nasce un fratellino. Comportamenti che gli adulti considerano come un capriccio o come il segno di “qualcosa che non va”, ma che sono assolutamente normale nel momento in cui attraversano le varie tappe di crescita. I suoi alti e bassi sono importanti nell’esperienza di imparare, vitali per il suo sviluppo emotivo; un’eccessiva preoccupazione da parte dei genitori può interferire con questo processo, insinuandogli il dubbio di essere in qualche modo “sbagliato”. Un buon modo per aiutare i nostri figli a superare più rapidamente e con meno ansie queste fasi è offerto dai rimedi floreali, che riescono a riequilibrare immediatamente i bambini quando il processo evolutivo sembra bloccarsi, impedendo che si depositino e si stratifichino emozioni e sentimenti negativi che possono col tempo trasformarsi in problemi.

Com’è la vita di un bambino che teme di non essere amato

 

Una delle esperienze più dolorose per un bambino è il desiderio disperato della presenza di qualcuno che invece non lo vuole, o l’amore disperato per qualcuno che invece non lo ama. Alcuni bambini continuano ostinatamente a cercare di farsi amare da qualcuno che non è in grado di farlo, magari a causa di un disturbo, di un meccanismo di difesa o di un’infanzia dolorosa. Immaginate un neonato che sollevi gli occhi per incontrare quelli della madre, ma che non riesca quasi mai a trovarli o che in essi scorga una fondamentale assenza di vita, nessuna luce, nessuna gioia nel restituire lo sguardo. Lui tende le braccia verso di lei, ma lei lo lascia andare senza reagire in alcun modo. Oppure pensate a un bambino di cinque anni che cerchi in tutti i modi di compiacere il padre regalandogli i suoi disegni, oggetti che ha trovato o qualcosa che ha fatto a scuola, ma per quanto lui si sforzi percepisce da parte del padre soltanto un senso di fastidio.

Se un bambino ha la sensazione che il proprio amore valga poco, che non venga notato o ricambiato, arriva alla conclusione di non essere degno d’amore, pensa di apparire ripugnante agli occhi della persona così importante per la sua vita. È probabile allora che inizi a credere che ci sia in lui qualcosa di sbagliato, che la sua sia soltanto avidità, un bisogno eccessivo, un’esigenza ingiustificata e sgradevole. Se il suo amore viene sempre rifiutato, cosa gli rimane da offrire al genitore? Cosa può offrire al mondo? Ha perso la sua ricchezza più importante, il suo valore. Non è più nulla. Lo psicoanalista Fairbairn parla dei bambini che amano senza essere ricambiati affermando: “Il suo […] amore per la madre, di fronte a un rifiuto da lei agito e voluto, […] è come se si riversasse in un vuoto emotivo. Questo riversare è accompagnato da un esperienza emotiva particolarmente devastante. In un bambino più grande tale esperienza implica una forte umiliazione provocata dalla valorizzazione del suo amore. A un livello profondo (o a una stadio iniziale) la sua esperienza corrisponde alla vergogna di aver mostrato così apertamente un bisogno che, poi, è stato trascurato e sminuito. In virtù di tali esperienze di umiliazione e vergogna [il bambino] si sente degradato a una condizione in cui mancava valore, riconoscimento e dignità. La percezione del suo valore è minacciata: Il suo malessere ha a che fare con il senso di inferiorità. A un livello più profondo (o a uno stadio più precoce) l’esperienza del bambino è, per modo di dire, quella di un’esplosione inefficace. […] Ovvero, un’esperienza di disintegrazione e di imminente morte psichica.” (Fairbairn,1952)

È importante aggiungere che, in ogni caso, è raro che il rifiuto da parte del genitore, o l’indifferenza emotiva, siano totali. Probabilmente la madre di tanto in tanto sorride al suo bambino, lo prende in braccio, gli racconta una storia, ma questo può essere causa di dolore anche maggiore. Il bambino continua a ricordare i momenti in cui la madre è affettuosa, a soffrire con più disperazione tutte le volte in cui lei non risponde o pare non interessi a lui, a patire lo schiaffo emotivo del fastidio che lei mostra nei suoi confronti.

 

Articolo tratto dal libro: “Aiutare i bambini che temono di non essere amati” di Margot Sunderland (ed. Erickson)

 

Malattia e salute secondo il dottor Edward Bach

Per far comprendere il concetto di malattia il dottor Edward Bach, il pioniere della floriterapia, nei suoi libri (“Guarisci te stesso” e “Libera te stesso”) scrive:  “Noi sappiamo che la malattia è, nel corpo, l’estrema conseguenza di un lungo profondo agire di forze misteriose. Il successo della terapia materiale è solo apparente e il sollievo provvisorio, se non è stata rimossa la vera causa…(…)… Ogni sforzo indirizzato al corpo non può fare altro che riparare il danno in maniera superficiale. Perciò non lo cura, per il fatto che la causa è sempre operante e prima o poi rivela la sua presenza sotto altra forma…(…)… La malattia è, nella sua vera essenza, il risultato di un conflitto fra Spirito e Mente, e perciò non può essere sconfitta se non con uno sforzo spirituale e mentale….(…)… La malattia non è un errore né una punizione, ma solamente un correttivo, uno strumento di cui l’Io Superiore si serve per richiamare la nostra attenzione sui nostri errori, per metterci in guardia di fronte a errori maggiori e per riportarci sulla via della verità e della luce, dalla quale non avremmo mai dovuto allontanarci.”

La malattia, dunque, è la disarmonia che si genera tra l’Io Superiore e la personalità. Disarmonia che è ben spiegata nel racconto con cui apre il suo libro “Libera te stesso”:

“Una ragazzina decide di dipingere un quadro con una casa, per il compleanno della madre. Nella sua mente il quadro è già finito, sa come realizzarlo nel più piccolo dettaglio, occorre soltanto riportarlo sulla carta. Prende la scatola con i colori, il pennello e, piena di entusiasmo e felicità, si mette al lavoro.
Tutta la sua attenzione e il suo interesse sono concentrati su ciò che fa, niente può distrarla. Finisce il quadro per tempo…ogni sua pennellata è stata fatta per amore..anche se la casa dipinta dovesse sembrare una baracca, è comunque la casa più perfetta mai realizzata in un quadro. E’ un successo, perché la piccola artista ha messo tutto il suo cuore e la sua anima, tutto il suo essere nel farlo.”

Ha realizzato il quadro in completa libertà, ascoltando semplicemente il suo cuore, ma se “ipotizziamo che, mentre la ragazzina sta dipingendo felicemente, arrivi qualcuno che le dica: “Perché non metti la finestra qui e la porta lì, e poi il sentiero del giardino dovrebbe andare così..”. Il risultato sarà che la bambina perderà ogni interesse rispetto al dipinto; anche se dovesse continuare, non farà altro che riportare sulla carta le idee di un’altra persona. Potrà irritarsi, impaurirsi, sentirsi infelice, rifiutare i suggerimenti, cominciare a odiare il quadro e strapparlo..ma anche se lo terminasse, sarebbe un fallimento”.
Questo quadro non sarebbe più la realizzazione del sentimento d’amore della piccola perché le continue interferenze ne hanno limitato la libertà di espressione. Questa è la malattia, la reazione a qualcosa che ha deviato, ha interferito, ha ostacolato il progetto della nostra esistenza e che inevitabilmente genera stati d’animo come rabbia, paura, instabilità, dubbio, dolore, e che indicano l’infelicità nel vivere e di cui non comprendiamo le cause, anzi le attribuiamo molto spesso a qualcosa che è esterno da noi.

Le intuizioni di Bach sono anche in linea con le più recenti ricerche dell’Università dell’Indiana che ha stabilito che essere sinceri fa bene alla salute. La ricerca, guidata dalla psicologa Anita Kelly, è stata condotta su circa un centinaio di volontari, divisi in due gruppi: a metà di loro è stato detto di evitare di dire bugie nel corso della giornata, mentre al gruppo di controllo non è stato detto nulla di particolare. I partecipanti si presentavano una volta alla settimana ad una visita medica, nella quale venivano rilevate le loro condizioni generali di salute. Nel frattempo venivano anche sottoposti ad un test con la “macchina della verità”, per verificare quante volte avessero mentito, e su che cosa di preciso, nel corso della settimana.
Ciò che è emerso chiaramente è un’associazione inversamente proporzionale fra il numero di bugie e il livello di salute di chi le pronunciava. Quando le bugie aumentavano, diminuiva il benessere complessivo del soggetto. Stando all’analisi presentata nel corso dell’ultima conferenza dell’American Psychological Society, chi si attiene alla verità migliora la propria salute fisica e psicologica. Chi dice bugie impegna il cervello a un lavoro supplementare che si traduce in stress e nell’abbassamento del sistema immunitario. Così si diventa più esposti a piccoli malesseri come mal di testa, raffreddori e mal di gola, ma si corre anche il rischio di cadere in depressione. Meglio dire la verità, dunque, anche quando ci si nasconde dietro alle bugie a fin di bene, contraddizione in termini inventata dai mentitori patologici.
Linda Stroh, professore emerito di comportamento organizzativo alla Loyola University di Chicago, commenta: “sapere di poter dire la verità abbatte i livelli di stress, mentre vivere un conflitto interiore che porta alla menzogna aggiunge un carico pesante di tensione alla vita quotidiana”.

Un caso di bullismo

Questo è il caso di un bambino di quarta elementare che era vittima di continui e reiterati episodi di bullismo e aggressioni fisiche da parte di un compagno di classe al punto da non voler più andare a scuola. Era molto nervoso e si mordeva spesso le labbra.

Ho consigliato alla mamma di proporre al bambino un corso di arti marziali e di somministrare al bambino la Camomilla spagyrica (Alkaest) con aggiunta di essenze floreali per il tema della paura ed il fiore australiano Southern Cross ed il bambino ha recuperato serenità e la voglia di tornare a scuola in breve tempo. Da allora non è più stato vittima di episodi di bullismo ed ha smesso di mordersi il labbro.

Southern Cross è il rimedio per le persone che pensano di non essere responsabili della creazione della propria realtà e tendono a biasimare gli altri, ma mai se stessi. E quindi tendono ad attribuire la causa  delle loro disgrazie ­a gli altri o a situazioni esterne. Spesso si sentono vittime delle circostanze e chiedono in modo costante un aiuto eccessivo. Si mostrano spesso immature, irresponsabili e negligenti. Fanno una gran fatica a guardare dentro se stesse. Questo li porta ad incolpare agli altri di interferire nella propria felicità. Sono ipercritiche e pessimiste. Invidiano i successi e le ricchezze altrui.

Le persone Southern Cross sono sempre in sofferenza, soffrono, si autoflagellano, reagiscono dolorosamente a molte cose che accadono. Per chi si identifica nel ruolo della vittima e ha la sensazione che la vita sia stata molto dura e ingiusta con loro. Una frase che ripetono spesso è: “Non è giusto!”.

Perché una persona soffre?
La risposta è semplice: vuole soffrire, e troverà sempre una ragione per farlo…
Ma perché questa persona vuole soffrire?
Bisogna sviscerare il concetto della “zona di comfort”. La parola “comfort” confonde: significa comodità, qualcosa di piacevole. Mentre il concetto “la zona di comfort” significa qualcos’altro, una situazione per te abituale, dove sai cosa fare; significa il mondo virtuale che tu hai creato, la tua rete informatica, le tue abitudini, i tuoi comportamenti.
Nella zona di comfort non dobbiamo sentirci necessariamente comodi, spesso è il contrario, ma sappiamo come muoverci.
Quando una persona cresce in una famiglia difficile, pressata dai genitori, quando sin dall’infanzia sente il disamore e subisce le ingiustizie, i percorsi neuronali che il suo cervello ha creato in quell’età prevedono la sofferenza e le preoccupazioni diventano normali. Soffrire è una sua abitudine. Sta “bene” quando sta male, e non perché sta realmente bene, ma perché è abituato s vivere così. E’ la sua zona di comfort.
Così troverà sempre un modo per soffrire. Ed eviterà delle situazioni nelle quali potrebbe sentirsi veramente bene.
Dello stare bene non sa cosa farne, non è abituata a stare così e anzi cresce la sua angoscia per il sospetto che da un momento all’altro potrebbe accadere qualcosa di brutto, di sconosciuto, una disgrazia imprevista.
Per evitare che succeda qualcosa di brutto ma sconosciuto, occorre che accada il brutto abituale, un vecchio meccanismo ben avviato e ben oliato, dove sai come comportarti, come sentirti.
Questa persona può ricordare le offese subite nell’infanzia e può anche chiedere di lasciare andare il passato, ma in realtà non vuole lasciarlo andare, perché è un importante fattore che le permette di stare nella sua zona di comfort.
E organizza la sua vita in un certo modo.
Da adulto, leggerà e studierà di tutto per non dover soffrire, ma si sceglierà uno o più lavori scomodi e mal pagati che non le porteranno nessun piacere né benessere materiale, ma le permetteranno di mantenere l’abituale stato emozionale.
Si troverà un partner “generatore di sofferenza”, per restare ancora nella zona di comfort. I partner che non si adattano a questa immagine non le interessano, non sa cosa farsene, sono dei deboli perché “solo la sofferenza forma e seleziona i duri, i vincitori”.
E così, può dedicarsi all’autoflagellazione attaccandosi a qualcosa di poco conto, tuffandosi nei vecchi ricordi, piangersi addosso, trovare i colpevoli della sua sofferenza… sempre nella zona di comfort.
Dovrebbero conoscere bene e capire questo meccanismo, imparare a uscirne invece che controllarlo perché purtroppo, tutte quelle cose alle quali aspira la loro coscienza: una bella relazione, un bel lavoro, la calma interiore… tutte quelle cose si trovano al di fuori della “zona di comfort.”

La disciplina che non divide

Nell’ambito del ruolo genitoriale, è tipico pensare alla disciplina come punizione, ma nei suoi significati più profondi ce ne sono altri: come formare, riportare il controllo, mettere ordine. Non vi è dubbio che i bambini abbiano bisogno di disciplina, ma dobbiamo assicurarla senza danneggiare la relazione. La disciplina non deve e non ha alcun bisogno di essere antagonistica. Non è colpa dei nostri figli se sono immaturi o sono in balia di impulsi che non riescono a gestire. Nella nostra cultura concentrata sui risultati a breve termine, ci preoccupiamo solo dell’obbedienza. Tuttavia, se comprendiamo le esigenze di attaccamento e teniamo conto della vulnerabilità dei nostri figli, l’imposizione di sanzioni, le conseguenze punitive e la privazione di privilegi sono controproducenti, perché i castighi sviluppano una relazione antagonistica e inducono indurimento emotivo. Mettere un figlio in castigo per insegnargli una lezione, contare fino a tre per essere obbediti, sono tattiche che mettono a dura prova la relazione. Quando ignoriamo un bambino che è stato preso da un accesso di stizza, o lo isoliamo perché si è comportato male, o gli neghiamo il nostro affetto, minacciamo il suo senso di sicurezza. La discipina per un genitore, è quella di riuscire ad agire nel contesto della connessione con lui.

Cosa fare allora? Alcuni approcci ci vengono naturali se ci preoccupiamo meno di cosa fare e restiamo consapevoli del legame di attaccamento. Quando invece ci concentriamo sul comportamento, rischiamo di indebolire le basi stesse del nostro potere, ossia la relazione con i figli.

I sette principi della disciplina naturale

Usiamo la connessione, non la separazione, per rimettere in riga il bambino.

La separazione è un insieme di metodi comportamentali che prevedono azioni verso i figli che sono alternative al classico castigo, come isolare, ignorare, trattare con freddezza, privare dell’affetto. Sottoporre un bambino ad esperienze di separazione non necessarie, anche se fatte con le migliori intenzioni, ha un costo molto alto: l’insicurezza del bambino. L’alternativa positiva alla separazione è il legame. Il legame è la fonte del nostro potere e della nostra influenza genitoriale. La pratica di fondo che deriva da questo mutamento nel modo di pensare è: “prima connetto e poi dirigo.” Ossia, il genitore deve avere la volontà di connettersi prima di formulare una qualunque richiesta precisa al bambino. Che si tratti di un bambino molto piccolo o di un adolescente recalcitrante, è necessario che il genitore lo porti vicino a sé, ristabilendo la vicinanza emotiva prima di aspettarsi ubbidienza. I risultati possono essere sbalorditivi.

Quando sorge un problema, lavoriamo sulla relazione, non sull’incidente.

Alcuni comportamenti ci toccano sul vivo e ci mettono a dura prova la nostra capacità di  mantenere l’attaccamento ai figli. In cima alla lista ci sono l’aggressività e a controvolontà. Se siamo destinatari di un insulto, di espressioni di odio, o un’aggressione fisica, la sfida immediata è di sopravvivere all’attacco senza infliggere un danno alla relazione. Non è questo il momento di commentare la natura del comportamento o il suo impatto doloroso. E non è neppure il momento di lanciare minacce, spedire il bambino in isolamento o di infliggere un danno alla relazione. Concentrarci sulla frustrazione, anziché prendere l’attacco in modo personale, spesso ci sarà d’aiuto: “sei arrabbiato con me?”, “Questo non ti piace, eh…” Per preservare la relazione efficace, dobbiamo far capire che la relazione non è in pericolo.  Al momento opportuno, metteremo in atto la nostra promessa di chiarire le cose.

Quando le cose vanno storte per il bambino, tiriamo fuori le sue lacrime anziché cercare di insegnargli una lezione

Un bambino ha molto da imparare: condividere la sua mamma, far spazio ad un fratello, gestire la frustrazione e il disappunto, convivere con l’imperfezione, abbandonare le pretese, rinunciare ad essere al centro dell’attenzione, accettare un no. Per facilitare l’adattamento, il genitore dovrà scegliere la danza che conduce il figlio alle lacrime, al lasciar andare, e al senso di pace che conduce il figlio alle lacrime, aiutandolo a trovare le lacrime dietro la frustrazione. Il proposito non dovrebbe essere quello di impartire una lezione, ma di muovere dalla frustrazione alla tristezza. In queste situazioni si possono dire frasi come: “E’ tanto dura quando le cose non funzionano, vero?”, “So quanto volevi che succedesse”, “Non è ciò che ti aspettavi”.

Sollecitiamo le buone intenzioni invece di pretendere i buoni comportamenti

Il quarto cambiamento consiste nel modo di pensare la disciplina che richiede di spostare la concentrazione dal comportamento alle intenzioni. Il nostro compito come genitori dovrebbe essere quello di esortare nel bambino le buone intenzioni. Ad esempio, se sapete che incontrerete resistenza al momento di uscire, richiamate a voi il bambino in anticipo e sollecitate l’intenzione di venire quando direte che è ora di uscire con frasi come: “Sarai pronto a metterti le scarpe quando ti dirò di uscire?”. Non stiamo dicendo che sollecitare le buone intenzioni porterà automaticamente al comportamento auspicate, ma bisognerà pur cominciare da qualche parte. Nel sollecitare i buoni propositi, cerchiamo di attirare l’attenzione non sulla nostra volontà, ma su quella bambino. Invece di “voglio che tu…”, “ho bisogno che tu…”, “è necessario che tu…”, “ti ho detto di…”, “devi…”, suscitare una dichiarazione di intenti o almeno un cenno affermativo della testa: “posso contare su di te per…?”, “ti va di provarci?”, “pensi di riuscirci?”, “sei pronto per…?”, “cercherai di ricordarti?” Sollecitare le buone intenzioni trasforma i bambini da cima a fondo. E ciò che si ottiene ottiene è probabile che non si otterrà in nessun altro modo. Se non riusciamo a ottenere un successo iniziale nel sollecitare le buone intenzioni, significa che il bambino o non è abbastanza maturo, o non siamo abbastanza persuasivi, oppure esistono problemi nella relazione di attaccamento.

Tiriamo fuori i sentimenti eterogenei invece di cercare di fermare il comportamento impulsivo.

Tentare di fermare il comportamento impulsivo con frasi come: “Smettila di picchiarlo!”, “Non interrompere“, “Finiscila!”, “Lasciami in pace“, “Non essere così agitato!”, “Non fare lo sciocco“, “Smettila di dare fastidio!” è come mettersi di fronte ad un treno in corsa ed ordinare di fermarsi. Quando il comportamento del bambino è guidato dall’istinto e dalle emozioni, c’è poca possibilità di imporre l’ordine attraverso lo scontro o urlando dei comandi. Piuttosto che cercare di rivolgersi al comportamento, risvegliamo alla coscienza del bambino, pensieri e impulsi che possono entrare in conflitto con l’impulso di aggredire. Ad esempio facendo affiorare alla coscienza forti sentimenti di attaccamento, di voler piacere o il desiderio di essere all’altezza. Perché è sempre più saggio ricordare prima al bambino gli impulsi mitiganti e poi le emozioni incontrollate che lo hanno trascinato in una situazione difficile, ad con frasi come: “Ora stiamo molto bene insieme. Mi ricordo stamattina che non eri molto contento con me. Anzi eri così arrabbiato che hai fatto il diavolo a quattro!”. Oppure “E’ incredibile come si possa essere tanto arrabbiati con le persone a cui si vuole bene!”. Quindi la strategia è quella non di dare un taglio al repertorio comportamentale (che è profondamente associato agli impulsi associati alla vergogna, all’insicurezza, alla gelosia, alla possessività, alla paura, alla frustrazione, alla colpa, alla controvolontà, al terrore e alla rabbia), ma semplicemente di aggiungere qualcosa alla coscienza che, se necessario, tenga l’impulso in questione sotto controllo.

Quando si ha a che fare con un bambino impulsivo, orchestriamo il comportamento desiderato anziché pretendere maturità

Ci sono bambini che hanno problemi di autocontrollo e non sono in grado di riconoscere l’impatto del proprio comportamento o di anticiparne le conseguenze. Mancano di empatia, ossia sono incapaci di considerare il punto di vista dell’altro contemporanea mente al proprio. Sono spesso giudicati insensibili, egoisti, non collaborativi, maleducati e noncuranti. Percepirli in questo modo però significa solo predisporci a farci irritare dalla loro condotta ed avanzare richieste che non verranno mai soddisfatte. D’altronde, non possiamo costringere i nostri figli ad essere più maturi di quello che sono neppure dicendogli all’infinito che devono crescere. Anziché pretendere che esibiscano spontaneamente un comportamento maturo, potremmo coreografare noi il comportamento desiderato. Quando i bambini non sono ancora in grado di cavarsela da soli, le loro azioni devono essere orchestrate da un adulto che si metta nella posizione di suggeritore: “Ora tocca a papà a parlare”, “Ora è il turno di Bruno”, “Ecco, il gattino si accarezza così”, “Se hai un abbraccio per la nonna, ora sarebbe proprio il momento di darglielo”. Però prima di passare alla guida, si richiamerà a sé il bambino.

Se non si può cambiare il bambino cerchiamo di cambiare il suo mondo

Quando i tentativi ragionevoli di disciplinare il comportamento non funzionano, la risposta non è una disciplina più severa, ma una disciplina diversa. Poiché le tecniche coercitive sono controproducenti, veniamo all’ultimo degli strumenti che appartengono alle tecniche di disciplina naturale. L’intento non è quello di estirpare il comportamento cattivo, ma di alterare le esperienze che lo fanno sorgere. Ossia, modificare le situazioni e le circostanze che scatenano il problema comportamentale. Per superare il problema del comportamento del bambino ostinato e testardo, basta riconoscere che il bambino si lascia semplicemente trascinare dai propri impulsi. Ad esempio, se riconoscessimo che un bambino è incapace di gestire la frustrazione che prova, tenteremmo di modificare le circostanze che lo rendono frustrato. Se vediamo che un bambino si rifiuta di fare ci che gli viene chiesto, ma comprendessimo che il suo essere oppositivo è stimolato dalla pressione che sente gravare su di sé, ridurremmo la pressione che stiamo esercitando. Se considerassimo un bambino bugiardo, forse affronteremmo le sue bugie con modi giudicanti e severi. Ma se avessimo la saggezza di riconoscere, che un bambino cancella la verità, solo perché è troppo insicuro del nostro amore per rischiare la nostra ira o il nostro disappunto, faremmo tutto quanto è in nostro potere per ristabilire in lui un senso di assoluta sicurezza.

Meno i bambini avranno bisogno di disciplina, più ogni metodo sarà efficace. L’uso di consuetudini e routine è formidabile per mettere ordine nell’ambito del bambino, e così anche nel suo comportamento. Le buone abitudini minimizzano la coercizione e il bisogno di comandare. Ad esempio, un’abitudine molto importante, è di avere un luogo ed un tempo per la lettura ai bambini. Il suo scopo principale è di creare un’opportunità per la vicinanza e un’intimità a tu per tu, e anche per avvicinare il bambino alla lettura senza costrizioni.

(Articolo tratto da: “I vostri figli hanno bisogno di voi” di Gordon Neufeld e Gabor Maté – edizioni Il leone verde).

 

 

 

 

 

La dolcezza del cosleeping

Quando si parla di cosleeping si parla di sonno condiviso, cioè di notti trascorse tutti insieme nel lettone o nella stessa stanza. Sono molti i dubbi, le critiche e le paure nei confronti di questo metodo educativo. La polemica è sempre aperta. Farà bene? Farà male? Si può far sempre o solo qualche volta? Sono tanti i libri che supportano favorevolmente il cosleeping. C’è “Besame Mucho. Come crescere i vostri figli con amore”, di Carlos Gonzales, oppure “Sono qui con te, l’arte del maternage” di Elena Balsamo o ancora “E se poi prende il vizio”, di Alessandra Bortolotti.

Tante anche le tesi contrarie, in primis il temutissimo (da molti genitori) Eduard Estivill con il suo testo “Fate la nanna” che a lungo è stato considerato una vera e propria Bibbia, o Tracy Hogg con “Il linguaggio segreto dei neonati”, in cui si propongono metodi che dovrebbero aiutare sia i genitori sia i bambini a trovare presto una propria indipendenza e quindi un’armonia di ritmi, orari e routine. Sta alle famiglie capire qual è il metodo giusto da applicare.

Fa bene ai genitori

I genitori che praticano il cosleeping sono definiti “ad alto contatto”, inteso in tutti i sensi: emotivo, fisico ed empatico. Sono genitori che hanno uno scambio elevato con i propri bambini, un contatto fisico ed emozionale e che spesso sono identificati come mamme e papà canguro. Proprio come i marsupiali, le mamme canguro tengono i propri cuccioli vicini con le fasce, i marsupi, li allattano al seno anche per periodi prolungati oltre lo svezzamento, condividono il sonno e tendono ad avere un contatto concreto e costante con i propri figli. I motivi? Il contatto prolungato produce effetti positivi non solo sui più piccoli, ma anche sui grandi. Le mamme, in particolare, sarebbero meno soggette al “baby blue”, quel periodo fisiologico di difficoltà post parto che può sfociare in fenomeni depressivi anche forti.

Ma cos’è il cosleeping? Ne parliamo con Paola Orso Giacone, fondatrice dell’associazione MOM’s – mamme online, mamma di Lucia, 15 mesi, in attesa di un maschietto che arriverà a marzo, fiera e orgogliosa mamma canguro che pratica il cosleeping.

Noi lo abbiamo fatto

Paola, come ti sei avvicinata al dormire insieme? “Quando ero in dolce attesa non avevo la più pallida idea di cosa volesse dire diventare mamma – risponde Paola -. Avevo una infarinatura su tutto e, come la maggior parte delle persone, ho preparato la cameretta con il lettino, credendo che Lucia avrebbe dormito lì. Ma quando è nata aveva già le idee chiare! Malgrado il taglio cesareo cui sono stata sottoposta, sono riuscita a far partire subito e bene l’allattamento (ancora adesso continuo ad allattarla) e il fatto di averla accanto la notte ci permetteva di riposare tutti, senza neanche svegliare il papà. Al primo accenno di pianto da fame aveva il seno a disposizione, poteva poppare e poi riaddormentarsi, rendendo il sonno più semplice e sereno anche a me. Questa pratica, iniziata quasi per comodità, si è trasformata in una meravigliosa abitudine per tutti. Nei bambini fino ai 3 anni i risvegli notturni sono fisiologici, dormire tutti insieme permette di aiutarli a prendere sonno più facilmente e serenamente. Inoltre sentire il suo respiro, il suo calore e intravedere il suo viso, rende me e il suo papà felici. Ora abbiamo attrezzato la camera con un side-bed (abbiamo adattato il lettino togliendo una sbarra, lo abbiamo legato al lettone e adeguato l’altezza dei materassi con un piccolo rialzo). Lo abbiamo fatto per avere più spazio, perché presto arriverà il fratellino e questa volta non abbiamo dubbi su dove dormirà”.

Al momento giusto

Il cosleeping ha dei vantaggi? “Facilita l’allattamento a richiesta, perché la produzione di prolattina, l’ormone che promuove la lattazione, è più stimolata di notte e permette di dormire senza alzarsi quando il bambino si sveglia. Per noi è stato naturale, abbiamo seguito il nostro istinto e il nostro amore, pensando che tutti i cuccioli di mammifero dormono con la mamma e che non dovremmo aver fretta di staccarci da loro per renderli indipendenti a 4 mesi. E finire poi a rimpiangere i nostri bambini quando sono grandi e le coccole non le vogliono più!”.

Le critiche

Non tutti sono d’accordo con i genitori che praticano il cosleeping: quali sono le principali critiche che hai ricevuto? “Le critiche sono grossomodo le stesse che vengono indirizzate ai genitori che adottano uno stile di accudimento ad alto contatto, cioè quei genitori che scelgono di portare avanti un metodo educativo basato su un legame fisico molto stretto col bambino. Chi pratica il cosleeping spesso sceglie di portare il bambino nella fascia, di allattare al seno a richiesta e anche, appunto, di condividere il sonno. Quella attuale è una società dove invece vengono ‘insegnati’ il distacco e l’autonomia precoci, il non stare troppo in braccio per evitare vizi e anche il dormire tutta la notte, senza risvegli e separati. La mamma deve rientrare presto al lavoro e deve staccarsi dal bimbo per essere produttiva, come se la maternità fosse un periodo di malattia.

Le critiche sono dunque: lo vizi troppo, non sarà indipendente, a 18 anni dormirà ancora nel lettone e così via. Io non ci rido su. So che i bisogni di contatto del bambino vanno soddisfatti, so che non sono capricci o vizi, come volere un nuovo gioco o un nuovo vestito. Un accudimento prossimale aiuterà il piccolo a diventare un adulto più sicuro. Ah, quasi dimenticavo, la critica più divertente è che non avrò più intimità con il mio compagno! Vi ho già detto che sono incinta del nostro secondo bambino?”.

Raramente una mamma sbaglia

È un bene? È un male? Cosa consigliare ai genitori che vogliono avvicinarsi al cosleeping? “Di fare di testa propria e ignorare le critiche, che tanto arriveranno qualsiasi scelta faremo. Ogni famiglia deve trovare il suo equilibrio e non esistono regole fisse. Nessun manuale insegna a crescere un bambino; si devono seguire i bisogni dei propri figli e le nostre sensazioni. Non esistono mamme buone o mamme meno buone, esistono semmai mamme insicure e poco informate, specialmente sull’allattamento al seno, che va a braccetto con il cosleeping. È provato che una madre che dorme lontana dal suo cucciolo si sveglia molte volte per controllare ‘se respira’. Già si capisce che dormire separati crea un’ansia nella madre. Seguendo il proprio istinto e le proprie sensazioni raramente una mamma sbaglia”.

Articolo tratto da: www.giovanigenitori.it

Illawarra Flame tree per il trauma del rifiuto

È fondamentale dare tutta l’attenzione possibile alla relazione madre bambino durante la fase della gravidanza e del primo anno di vita, perché da questa dipenderà tutta la personalità futura del bambino. Qui si impiantano le fondamenta basilari su cui poi si costruiranno tutti gli altri piani della casa. Questa condizionerà positivamente o negativamente le future tappe e crisi della crescita.

Poter curare il rapporto originario del bambino permette di fare una prevenzione di tipo primario e cioè di poter prevenire in modo radicale e scientifico i futuri disturbi della personalità, del comportamento e dello sviluppo dei minori e quindi anche dei futuri adulti.

Il rapporto originario diventerà positivo per il bambino se la madre  starà vicino a lui, lo nutrirà, lo abbraccerà, lo amerà, si prenderà cura di lui e si metterà in una relazione vera e profonda con lui, con il suo corpo, con i suoi bisogni emotivi e particolarmente con la sua unicità e originalità. In particolare sarà positivo se la madre comprende il vissuto emotivo, quello che il bambino vive come lo vive e lo condivide e lo partecipa, rassicurandolo. Allora si attiverà dentro di lui l’archetipo della Grande Madre Buona che costituirà un elemento di base fondamentale della sua personalità.

Il rapporto originario sarà negativo se la madre è assente fisicamente o mentalmente in quanto presa da altre emozioni più forti, se non riesce a relazionarsi con il bambino in modo profondo e vero, se non riesce ad accudire il suo corpo e a nutrirlo in modo positivo, se è sopraffatta da angosce relative al suo vissuto neonatale, se è affetta da una patologia mentale e lo nega, lo rifiuta, lo aggredisce, se non lo vive a livello emotivo, se è  fredda, arida, incapace di una relazione, se lo vive come parte di sé negandolo come persona diversa da sé, se lo tratta come un oggetto, se lo pensa incapace di emozione.

Se il rapporto originario è negativo si attiva nel bambino l’archetipo della Grande Madre Terribile.  Scaturirà un sentimento terribile di rifiuto, di abbandono e di solitudine che può determinare una sensazione di frammentazione.  L’esperienza di un rapporto originario negativo determina inoltre una depressione profonda  perché significa la perdita della Madre Buona. (Neumann)

Una mancanza di amore in un rapporto primario negativo determina il senso di colpa primario. Quando il bambino in questa fase della vita non è amato o viene abbandonato dalla madre, non aggredisce la madre o il mondo ma prende la colpa su di sé. La madre è vissuta come un dio e il suo allontanamento o rifiuto o la mancanza di amore viene vissuta dal bambino come una sentenza superiore, una punizione, una condanna senza appello. Ed è per questo che il neonato non potendo attribuire la colpa alla madre che vive come un dio, la attribuisce a sé.

Si forma quindi il senso di colpa primario che assomiglia a una colpa primordiale, a un peccato originale. Il senso di colpa  determina a sua volta la convinzione che non essere amato equivale a non essere degno di amore, a essere sfortunato.

Poiché la madre Buona non c’è, scompare anche il Tu, la possibilità di relazione e lui si sente nella solitudine e nello smarrimento totale. Poiché la madre è anche il mondo, anche il mondo diventa caos.  Il convincimento della propria colpevolezza determinerà un Io negativizzato, caratterizzato da affettività esasperata, aggressività, atteggiamenti egocentrici, narcisistici e asociali. In pratica continua ad aggredire  se stesso. (Neumann)

Il danno può essere riparato  nelle fasi successive con un amore intenso e vero; oppure nel corso della vita la Grande Madre Buona può essere attivata da altre figure materne positive.

(tratto dal blog “Progetti educativi” a cura di Dr.ssa  Vallorani Maria Grazia  –   Psicologo Psicoterapeuta)

 

Psicologicamente il rifiuto mina la nostra autostima. Quando il rifiuto, immaginario o reale, viene manifestato, la persona che lo subisce ne risulta profondamente ferita, con una sensazione di abbandono. Per evitare possibili rifiuti fanno cose che non vorrebbero fare. Sanno di possedere certe abilità, ma non sono in grado di svilupparle o sfruttarle. Ignorano le proprie potenzialità, rendendosi esenti dalla responsabilità di realizzarle. Per tutte quelle persone che si sentono rifiutate, lasciate in disparte, non amate, per chi ignora le proprie potenzialità ed ha paura delle responsabilità, il fiore più indicato è Illawarra Flame Tree. Quest’essenza dona auto-accettazione, fiducia in se stessi e forza interiore. L’essenza aiuta a fare il primo passo verso la realizzazione del proprio potenziale, fa prendere confidenza con le vere aspirazioni della vita senza sentirsi schiacciati dalla responsabilità. Utile anche per chi tende a rifiutare se stesso cadendo, a volte, in uno stato di depressione. Per i bambini che vivono situazioni di esclusione, come dalla squadra di calcio o dal gruppo dominante oppure che vengono inseriti in una nuova scuola dove se insegnanti e compagni non gli prestano molta attenzione e vivono questa situazione come un rifiuto. Invece di cercare di fare amicizia, si scoraggiano.

Un altro tratto caratteristico di chi ha vissuto il trauma del rifiuto è l’intensa apprensione alle nuove situazioni o esperienze. Senza dubbio, queste personalità sono molto insicure e costantemente bisognose di essere amate e accettate. Soffrono molto di essere lasciate fuori da una situazione, che sia generata da qualcosa di estremo o semplicemente trattarsi semplicemente di un fatto irrilevante della vita alla quale nessuna altra persona darebbe importanza. Tanto la condotta apprensiva che la paura all’esclusione li portano a sviluppare un comportamento pregiudicato con la gente, benché in realtà questo atteggiamento sia una difesa davanti al dolore profondo che hanno causato le delusioni affettive, gli abusi la mancanza di essere presi in considerazione.
La funzione principale di Illawarra Flame tree è dare fiducia, capacità di compromesso, forza interna, autoapprovazione. Aiuta ad affrontare il primo passo in situazioni nuove e toglie la paura dell’esclusione e del rifiuto.

Counseling per genitori

L’associazione La Vie En Rose offre ai soci l’opportunità di fare un percorso di counseling con uno dei counsellor che collaborano con la nostra associazione. Il carattere specifico di questo percorso sarà quello di integrare le tradizionali sessioni di  di counseling con l’utilizzo delle essenze floreali ed i rimedi spagyrici idonei a favorire nuove vie d’uscita dalle situazioni problematiche.

Sede degli incontri: Milano – Montevecchia – Domodossola

Per ulteriori informazioni si prega di scrivere all’indirizzo email: oltreifioridibach@gmail.com

Il counseling in Italia oggi è una realtà che si va affermando sempre di più in diversi ambiti:

Si tratta di un intervento fondato sul colloquio e sulle tecniche di ascolto, rivolto alla persona in situazione di disagio. Per disagio si intende un problema circoscritto che non necessita di un lavoro di ristrutturazione profondo della personalità. Infatti il counsellor non fa diagnosi e non tratta persone gravemente compromesse nella gestione del quotidiano, ma riguarda l’ambito della crisi momentanea e delle sofferenze connesse al ciclo della trasformazioni della vita. Quindi

Il termine counselling deriva dal latino e si può tradurre in consulo-ere che si traduce in <consolare>, <confortare>, <venire in aiuto>, <prendersi cura> oppure si può tradurre in consulto-are che rimanda al significato di richiedere il <parere di un saggio> o il <consiglio di un esperto>.  Carl Rogers è il considerato il padre del counseling psicologico. Egli sosteneva che il modo migliore di aiutare una persona quando si trova in difficoltà non è quello di dirle esplicitamente cosa fare, ma bensì di aiutarla a comprendere da sola la sua situazione a gestire il problema, prendendo da sola e pienamente, le responsabilità delle proprie scelte e decisioni. Il counselor fa leva sulle capacità, qualità e risorse della persona coinvolta nella situazione problematica, sviluppando nuovi processi di esplorazione, comprensione ed apprendimento con lo scopo di stimolare nuove vie d’uscita.

In questo appunto si differenzia appunto il lavoro del counselor rispetto a quello di altri  professionisti o tecnici risolutori di problemi, grazie appunto alla dimensione <artistica> od <olistica> che fa leva sull’apertura di nuove vie di comprensione allo scopo di trovare nuove vie di comprensione alle problematiche affrontate. La relazione che si viene a creare tra counselor e consultante non è un sistema di conoscenze concettuali e speculative che confluiscono in un metodo definito o in un sistema, bensì si tratta di una modalità di intervento che che possiamo mettere in pratica nelle nostre relazioni quotidiane con gli altri. Anche se non ne siamo consapevoli fino in fondo, quando utilizziamo l’empatia, mentre un amico in difficoltà ci racconta i suoi problemi, ci rendiamo conto che già questo nostro atteggiamento ci permette di fornire sostegno e conforto, sebbene non utilizziamo tutte le abilità del counselor.

Le caratteristiche che permettono di identificare la pratica del counseling sono, innanzi tutto, il clima di accoglienza che riusciamo a creare, l’accettazione incondizionata e la comprensione dell’altro, l’ascolto attivo ed il buon uso delle domande.

Un bravo counsellor è colui che all’interno di uno stato di comprensione empatica, è in grado di accettare l’altro nella sua globalità, senza giudizio. Senza giudizio, perché si sta guardando il suo mondo con i suoi occhi, si è nei suoi panni, nel suo cuore, si è con lui.

La relazione d’aiuto è una forma di intercomunicazione in cui si crea un ponte tra chi assiste e chi è assistito, che fa sì che queste due personalità diventino un noi; ciò che produce una sensazione di solidità affettiva… L’operatore deve fornire un tipo di relazione priva di ogni pregiudizio e ansia. Su questa base si costruirà l’azione cooperativa per risolvere il problema.

Un ulteriore obiettivo del counseling è favorire nelle persone la capacità di riattivarsi, di recuperare consapevolezza, equilibrio psicofisico, di gestire lo stress e gli stati emotivi in situazioni dove ci si espone fortemente, di implementare le risorse, di potenziare l’autostima.

 

Bambini iperattivi

Per valutare se un bambino è affetto da un deficit di attenzione e di iperattività (ADHD), occorre sottoporlo ad una valutazione diagnostica piuttosto lunga ed articolata. In alcuni casi i bambini iperattivi sono trattati con sostanze chimiche, ma nella maggior parte dei casi si tratta di bambini solamente più vivaci della media.

E’ spesso in occasione dell’inserimento scolastico che i problemi comportamentali e relativi al cosiddetto deficit attentivo diventano più salienti. Se un bambino non riesce a concentrarsi su un compito non è detto che sia affetto da un disturbo neuropsichiatrico. Può per esempio dare importanza ad altri stimoli ambientali per lui rilevanti o sentirsi in uno stato emotivo che non gli consente di mantenere l’attenzione su un compito. Oppure ci possono essere altre cause.

Gli estratti spagyrici di camomilla, passiflora e tiglio (gemmoderivato) opportunamente combinati ai  fiori di Bach e australiani sono un ottima alternativa naturale sia per i bambini troppo vivaci che iperattivi: non hanno effetti collaterali, non creano dipendenza e si possono usare insieme a qualunque altra terapia medica o psicologica migliorandone addirittura gli effetti.

Il criterio con cui scegliere i fiori si basa sulla valutazione della singola situazione e delle caratteristiche di ciascun bambino. La floriterapia, infatti, non serve per alleviare i sintomi, ma per rimuovere la causa del problema. Come diceva Bach, “si cura la persona non la malattia“.

Ecco di seguito un caso di bambino iperattivo:

Si tratta di un bambino di 7 anni più vivace della media, che all’inizio della scuola elementare faceva fatica a mantenere l’attenzione e ad inserirsi nella classe. Quando l’ho incontrato era parecchio abbattuto perché voleva incontrarsi con un amichetto dopo la scuola ma gli capitava spesso di restare solo. Talvolta i bambini fanno fatica a trovare un senso di appartenenza al gruppo dei compagni di classe a causa di esperienze avvenute in tenera età, perché hanno vissuto un abbandono da parte dei genitori, come una degenza ospedaliera prolungata o l’affido del bambino in tenera età ad un nido. Lo psicologo Joachim Haarklou ad esempio sostiene che il bambino sotto i due anni non dovrebbe andare al nido o meglio che è preferibile che stia a casa perché con i genitori si sente più protetto e sicuro. Haarklou dice anche che si dovrebbe però anche fare una valutazione del bambino. Ogni bambino è diverso e c’è chi è pronto ad un anno e mezzo e chi invece non lo è prima dei 4-5 anni.

Anche questo bambino é stato portato al nido che non aveva neppure 9 mesi,  perché la mamma ignorava le conseguenze di una scelta di questo tipo. Il fiore che avevo testato era in effetti Tall Yellow Top mescolato con un gemmoderivato di Tiglio. Dosaggio: 7 gocce mattino e sera. Dopo circa un mese le maestre dicono alla mamma che il bambino non è  più iperattivo. E la mamma testimonia una maggiore integrazione nel gruppo degli amici.

Il tiglio è in grado di agire sul sistema nervoso, allevia gli stati d’ansia contrastando i sintomi tensivi che ne derivano: cefalea, palpitazioni, insonnia, disturbi gastrici e intestinali, come il colon irritabile.

Tall Yellow Top è un fiore australiano da utilizzare quando c’è un senso di alienazione, solitudine e isolamento caratterizzato da una mancanza di connessione o di senso di appartenenza a qualsiasi cosa come la famiglia, un posto di lavoro o una realtà sociale o nazionale. Quest’essenza aiuta a riconnettere la sfera cognitiva a quella emozionale, dona la riscoperta della sensazione di appartenere a un gruppo (famiglia, amici, colleghi di lavoro, ecc), e favorisce le relazioni con gli altri. E’ una essenza da usare per lungo tempo fino a 6-8 settimane senza interruzioni e, se necessario, deve ripetersi allo stesso modo.

Tall Yellow Top si può utilizzare anche quando si tratta di bambini figli di genitori che non hanno desiderato il figlio durante la gravidanza. Utile in tutti i casi in cui vi è un senso di non appartenenza, di rifiuto da parte degli altri e nei casi in cui vi è una mancanza del senso di “casa”.

Un caso di tosse nervosa

Questo è il caso di una bambina di 7 anni che dall’età di due anni e mezzo soffriva frequentemente di tosse secca, stizzosa molto fastidiosa, con vomito. Secondo il pediatra della bambina si trattava di tracheite, ma la madre della bambina non essendo convinta della diagnosi e sospettando un problema di reflusso si è rivolta ad un gastroenterologo  che ha prescritto alla bambina un gastroprotettore.

La mamma della bambina mi ha contattata perché voleva sostituire questo farmaco con dei rimedi naturali, senza effetti collaterali. Da un colloquio è emerso che la tosse si manifestava nel periodo scolastico e, da un test effettuato sulla bambina, sono arrivata alla conclusione che affonda le proprie radici in situazioni di tensione e di ansia. Quindi la tosse non è altro che il sintomo  di un’aggressività repressa o di una mancata affermazione di se stessi. Allora ho spiegato alla mamma della bambina che più di una cura vera e propria, consistente, in rimedi sostitutivi del gastroprotettore, in questo caso bisognerebbe rivolgersi a rimedi naturali per favorire l’autostima.

I gemmoderivati di tiglio e fico spagyrico, insieme alla miscela di fiori australiani Self-confidance, da alternare alla miscela Fluent Expression sono quindi da preferire perché risolvono sia il sintomo che la causa all’origine del disturbo. Da quando assume questi rimedi (un anno) la bambina non ha più avuto un colpo di tosse e si sente molto più serena, riuscendo ad esprimere se stessa con maggiore sicurezza.