Come favorire l’autostima di tuo figlio

La dimensione comportamentale del calore è il fattore cruciale perché un figlio possa sentirsi accettato e l’accettazione rappresenta un bisogno universale. Secondo la PARTheory (Parental Acceptance-Rejection Theory) gli esseri umani hanno sviluppato, nel corso dell’evoluzione, dei bisogni emotivi che possono essere soddisfatti da persone che coprono un ruolo importante nella loro esistenza. Riprendendo la teoria dell’attaccamento, la PARTheory sottolinea l’importanza di far sperimentare al bambino, sin dall’infanzia, sensazioni di sicurezza e fiducia, che rappresentano una base sicura cui far riferimento per affrontare le diverse fasi dello sviluppo. A sua volta, ciò richiede al genitore caratteristiche di accessibilità, sensibilità e responsività.  Applicando il modello teorico e gli strumenti di valutazione di Rohner, è stato dimostrato che l’accettazione ed il rifiuto hanno un impatto diretto sullo sviluppo: coloro che sono stati accettati dai genitori hanno una salute mentale significativamente migliore di coloro che sono stati rifiutati. L’affetto genitoriale può essere mostrato sia fisicamente, con l’abbraccio, le carezze ed il conforto; sia verbalmente, attraverso le lodi, i complimenti, ma anche il tempo dedicato all’ascolto; in modo simbolico, mediante l’uso di specifici gesti culturali (come la concessione di privilegio associato ad una determinata età (ad es. organizzare un pigiama party a casa propria). Questi ed altri comportamenti contribuiscono a definire le componenti dell’accettazione genitoriale. Una prima raccomandazione a un genitore che non sia freddo o rifiutante è dunque quella di rendere percepibile il suo affetto in un qualunque modo che si sia congeniale. Il genitore deve anche porre attenzione a non inviare messaggi contraddittori. Per instaurare una comunicazione efficace è importante partire dall’ascolto, prestando attenzione alle emozioni e alle opinioni che i figli possono esprimere. Il sostegno maggiore del bambino è dato dall’essere ascoltato fino in fondo, dal sentirsi compreso e appoggiato e contenuto dalla possibilità di confrontarsi con l’adulto, quando questi ha un’opinione diversa dalla sua.

Per contro la rabbia o il risentimento, che pure possono sorgere nel genitore quando un bambino si comporta molto male, o insiste in un modo di fare sgradito, devono essere autoregolati. Ogni volta che un genitore agisce aggressivamente verso il figlio, urlando, criticandolo con violenza o peggio ancora punendolo fisicamente, il sentimento inevitabile del bambino è quello di essere rifiutato. Accanto alle risposte aggressive da parte dell’adulto, non va sottovalutato l’effetto negativo della distanza emotiva o delle reazioni di prolungato disappunto di fronte alle mancanze. Si può far riflettere il genitore sul fatto che agendo in questo modo fornisce un modello negativo, oltre a comunicare ostilità e rifiuto.

La mancanza di calore genitoriale è associata ad una bassa autostima, a una bassa competenza sociale ed a elevati problemi psicologici e comportamentali e se i bambini non percepiscono il supporto della figura materna sorgono in loro sentimenti di insicurezza e inadeguatezza.

L’ascolto che mantiene viva la comunicazione

Essere in grado di ascoltare le emozioni è una competenza importante per le relazioni interpersonali. Soprattutto nei momenti di crisi, come genitori è importante saper mettere da parte i propri sentimenti e ascoltare e comprendere i pensieri e gli stati d’animo dei nostri figli. Se desideriamo che i nostri figli raggiungano l’autocontrollo, i primi che possono mostrare come si fa, siamo noi adulti, cercando di non lasciarci travolgere noi stessi dalle emozioni. Ad esempio, se nostro figlio ci dice che odia la scuola, invece di moralizzare, far la predica o persuadere (ad es. con frasi come: “Guardiamo cosa dicono le statistiche sui giovani laureati.”) è meglio favorire una liberazione catartica delle emozioni del figlio, ossia utilizzare un tipo di ascolto in cui è necessario accettare ciò che il figlio prova e non cercare di sbarazzarsi del piagnucolio o del tormento rassicurandolo o minacciandolo. Perché i figli vogliono assicurarsi che voi capiate quanto grave sia il loro malessere.  Se siamo in grado di praticarlo,  l’ascolto attivo può fare miracoli. L’ascolto attivo è un modo splendido per comunicare quando il figlio vive un momento di tensione o di squilibrio, in cui il genitore tenta di capire i sentimenti del figlio ed il significato del suo messaggio.

Ad esempio, prendiamo il seguente caso:

“Una bimba di 3 anni e mezzo cominciò a lagnarsi senza sosta appena la madre la lasciò con me in macchina per fare la spesa la supermercato. “Voglio la mamma” ripeté almeno una dozzina di volte, nonostante ogni volta le dicessi che sarebbe tornata nel giro di pochi minuti. Poi cominciò a piangere urlando: “Voglio la mia bambola. Voglio la mia bambola.” Non riuscivo a rasserenarla in nessun modo. Poi mi ricordai dell’ascolto attivo. Disperato dissi: “Mamma ti manca molto quando ti lascia sola”. Annuì. “Non ti piace che la mamma se ne va senza di te.” Annuì ancora, stringendosi sempre nella sua copertina e con l’aspetto spaurito di un cucciolo raggomitolato in un cantuccio del sedile posteriore. Continuai: “Quando ti manca la mamma, vorresti la tua bambolina”. Annuì energeticamente. “Ma qui, non c’è la tua bambolina e ti manca anche lei.” A quel punto, come per magia, uscì dall’angolino in cui si era raggomitolata, lasciò cadere la copertina, smise di piangere, si trascinò sul sedile anteriore e cominciò a conversare piacevolmente sulla gente che vedeva nel parcheggio.” (tratto da “Genitori efficaci ” di Thomas Gordon, ed.  La meridiana.)

Oppure, quando un figlio compie un danno, ad esempio fa cadere un vaso,  possiamo comunicare il nostro dispiacere dicendo: “ Il mio vaso rotto… sono davvero molto dispiaciuta …” se invece riusciamo ad empatizzare con il bambino possiamo dire: “Ti sei spaventato quando hai sentito il vaso cadere?” In entrambi i casi lasciamo che l’accaduto possa essere un’ occasione di crescita e di apertura alla relazione tra genitore e figlio, invece che di scontro. Se invece reagiamo con espressioni come: “Non avresti dovuto rompere il mio vaso!” La conversazione è chiusa. Daniel Stern parla di “sintonizzazione emotiva” ossia la capacità di ascoltare, accettare e comprendere l’emozione. L’ascolto attivo promuove invece il dialogo con il figlio. Questa sintonizzazione emotiva crea un clima favorevole e  accogliente che rende più facile il rapporto genitore figlio. Questo vuol dire saper aspettare prima di reagire, vuol dire essere fiduciosi che il figlio saprà  trovare le sue soluzioni al problema.

Le neuroscienze ci danno ulteriori conferme spiegando che ripristinando il contatto fisico, come l’abbraccio, il gioco corporeo, il massaggio e l’utilizzo di parole empatiche,  dette anche carezze emotive, aiutiamo il bambino a calmarsi, mentre il cervello si inonda di sostanze chimiche come l’ossitocina “l’ormone dell’amore”. Non è mai troppo tardi per mostrare attenzione, cura della relazione, empatia e comprensione, e questo lo aiuta a superare l’ansia e a regolare le emozioni intense.

L’empatia non è qualcosa che possiamo acquistare, guadagnare o acquisire. L’empatia è già dentro ognuno di noi. Nasciamo con questo bagaglio emozionale. Già da neonati nella nursery se un bambino piange, presto anche gli altri faranno lo stesso. Con il crescere, evolvono anche le strategie per mostrare all’altro empatia. Infatti, un bambino di due anni e mezzo è già in grado di comprendere il dolore altrui e saperlo distinguere da sé, per questa ragione non è insolito vedere bambini di quell’età che consolano i loro compagni che piangono, magari facendogli una carezza o portandogli un gioco. Certo è che se invece di dare importanza al sentire del bambino cerchiamo fin dalla più tenera età di non tenerne conto, questo non li aiuta a crescere con questa competenza, ma implementa invece una certa insensibilità ai sentimenti altrui.

Il ruolo delle emozioni nelle relazioni genitori figli

Le emozioni costituiscono sia i processi sia i contenuti delle relazioni che si creano tra genitori e figli fin dall’inizio del loro rapporto. Immaginate un bambino che corre tutto contento in casa dalla mamma per mostrarle un barattolo pieno di maggiolini colorati che ha trovato in giardino:  “Mamma guarda non sono bellissimi?” Se l’unica cosa che la donna vede è una casa potenzialmente invasa dagli insetti, la mamma risponderà dicendo: “Porta subito via di qui questi orribili animali!” In tal caso, il bambino protesta: “Ma se non li hai neanche guardati, vedi come luccica questo verde?” Dopo una rapida occhiata al barattolo prende il figlio per un braccio e lo accompagna alla porta ricordandogli che gli insetti vivono fuori di casa ed è lì che devono restare. In una situazione del genere le emozioni che il bambino sta vivendo vengono chiaramente ignorate; la sua eccitazione e la sua gioia non sono condivise dalla madre e il bambino rimane probabilmente confuso sul significato il valore di questa esperienza emozionale. La scoperta e la cattura dei maggiolini lo avevano fatto sentire bene e felice. Era rientrato correndo per condividere con la madre queste sensazioni positive. Ma le risposte ottenute lo inducono a pensare di essersi comportato male. Un coinvolgimento emotivo significativo, una partecipazione empatica della donna all’avventura e all’eccitazione del figlio avrebbero aiutato il bambino a dare un valore alla sua esperienza. Ciò che non vuol dire che in quanto genitori dobbiamo adattarci a vivere con la casa piena di insetti. Significa solo che è importante cercare di entrare in sintonia o in risonanza con l’esperienza emozionale dei nostri figli prima di cercare di modificarne i comportamenti. Entrare in sintonia con le loro emozioni può voler dire porsi al loro livello, avere un atteggiamento aperto e ricettivo, esprimere curiosità ed entusiasmo anche con il tono della voce: “Oh, fammi vedere che belle bestiole colorate! Grazie per avermele portate! Dove le hai trovate? Forse però i maggiolini sarebbero più contenti di rimanere fuori in giardino, non credi?” Un’interazione di questo tipo avrebbe rinforzato il rapporto tra madre e figlio. Sentendo che le sue idee e le sue emozioni avevano un valore per la madre, il bambino avrebbe inoltre provato un senso di sé più saldo e profondo. Quando i genitori sono capaci di entrare in sintonia con le sue emozioni, il bambino ha di sé un’esperienza positiva. E le relazioni emotive lo aiutano a dare significato alle proprie emozioni e influenzano il suo modo di vedere i genitori e se stesso.

Ma che cos’è esattamente un emozione? Possiamo riconoscere un emozione quando la proviamo, ma è molto difficile descrivere la natura dell’esperienza. Capire il ruolo che le emozioni e svolgono nei nostri rapporti interpersonali può essere di grande aiuto: è attraverso la condivisione di emozioni che entriamo in sintonia con gli altri. Sono le forme di comunicazione che coinvolgono la conoscenza delle nostre emozioni, la capacità di condividerle e la capacità di percepire empaticamente quelle dei nostri bambini che costituiscono le fondamenta su cui possiamo costruire con loro una relazione che continui per tutta la vita. Le emozioni plasmano le nostre esperienze interne e interpersonali e forniscono significati alla nostra mente. Quando siamo consapevoli delle nostre emozioni e siamo in grado di farne partecipi gli altri, la nostra vita di tutti i giorni risulta arricchita perché è attraverso la condivisione delle emozioni che rendiamo più profondi i rapporti con le persone che ci circondano. Un genitore capace di comunicare le proprie emozioni aiuta i figli a sviluppare un senso di vitalità ed empatia. Queste componenti possono alimentare nel corso dell’intera esistenza la crescita di relazioni interpersonali intime intense basate sulla condivisione di emozioni, sull’amplificazione di quelle positive e sull’attenuazione di quelle negative. 

Tratto da: “Errori da non ripetere. Come la conoscenza della propria storia aiuta ad essere genitori.” di Daniel J. Siegel Mary Hartzell, ed. Cortina

Impariamo a crescere con i nostri figli

I nostri figli ci danno l’opportunità di crescere e di esaminare questioni lasciate in sospeso legate alle nostre esperienze infantili. Se questa possibilità viene vista come un pesante fardello, il nostro ruolo di genitore può diventare gravoso e spiacevole. Se al contrario, consideriamo le nostre esperienze di genitori come un’opportunità per apprendere nuove cose, possiamo continuare a crescere con i nostri figli. Un approccio alla vita che prevede una costante disponibilità a imparare ci permette di affrontare il nostro ruolo di genitori con una mente aperta, come un viaggio alla scoperta di nuovi mondi. Dati relativamente recenti nel campo della ricerca neuro-scientifica sottolineano come, nel nostro cervello, nuovi collegamenti e probabilmente nuove cellule nervose possono continuare a svilupparsi nel corso della nostra esistenza. Le connessioni fra le cellule nervose determinano le modalità con cui i processi mentali sono creati; le esperienze plasmano questi collegamenti fra i neuroni cerebrali e di conseguenza plasmano la mente. Relazioni interpersonali e processi riflessivi favoriscono il continuo sviluppo del cervello. Il fatto di essere genitori ci offre l’opportunità di continuare ad apprendere mentre riflettiamo sulle nostre esperienze a partire da punti di vista inediti e costantemente soggetti a cambiamenti. Essere genitori ci permette anche di generare nei nostri bambini un atteggiamento aperto nei confronti del mondo mentre alimentiamo la loro curiosità e li sosteniamo nelle loro esplorazione dell’ambiente. Le interazioni complesse e spesso difficili che caratterizzano la relazione genitore figlio ci permettono di scoprire nuove possibilità di crescita e sviluppo per noi stessi per i nostri figli.

Tratto da: “Errori da non ripetere. Come la conoscenza della propria storia aiuta ad essere genitori.” di Daniel J. Siegel Mary Hartzell, ed. Cortina

Il linguaggio dell’accettazione

Quando una persona è capace di provare e di comunicare a un’altra una sincera accettazione, essa può diventare di grande aiuto. La sua accettazione dell’altro così com’è, è determinante per costruire una relazione in cui l’altro possa crescere, maturare, operare cambiamenti costruttivi, imparare a risolvere problemi, tendere ad un equilibrio psicologico, diventare più produttivo e creativo, realizzare pienamente il proprio potenziale.   L’accettazione è come il terreno fertile che permette ad un seme minuscolo di trasformarsi nel bel fiore che può diventare. Il terreno si limita a facilitare lo sviluppo del seme. Anche un figlio, come un seme, ha dentro di sé la capacità di crescere. L’accettazione è il terreno fertile, che semplicemente permette al figlio di realizzare il proprio potenziale. Perché l’accettazione genitoriale esercita tanta benefica influenza sui figli? E’ un punto che in genere non viene compreso. La maggior part delle persone è stata indotta a credere che si accetta un figlio così com’è, questi non cambierà mai; che il modo più valido per aiutarlo a migliorarsi è quello di dirgli quali aspetti di lui non sono accettabili. Di conseguenza la maggior parte dei genitori ricorre a piene mani al linguaggio della non-accettazione, pensando che sia il modo migliore per aiutare i figli. Il terreno che tanti genitori offrono ai figli è intriso di valutazioni, giudizi, critiche, prediche, massime morali, ammonizioni, ordini ed altri messaggi che trasmettono la non-accettazione al ragazzo per quello che è. Il linguaggio dell’accettazione, rende i figli più aperi e sereni; li fa sentire liberi di condividere sentimenti e problemi. Gli psicoterapeuti e i consulenti hanno dimostrato quanto può essere potente l’accettazione. I terapeuti più efficaci sono quelli che riescono a comunicare una sincera accettazione alle persone che cercano il loro aiuto.

Lavorando con i genitori ai corsi P.E.T. (Parent Effectiveness Training) partecipanti ai corsi di abbiamo dimostrato che si possono insegnare ai genitori le stesse abilità utilizzate dai terapeuti professionisti. La maggior parte dei genitori riduce drasticamente la frequenza dei messaggi che trasmettono non-accettazione e acquisisce una notevole capacità di utilizzare il linguaggio dell’accettazione. I genitori che imparano a manifestare attraverso le parole una sincera accettazione del figlio, dispongono di uno strumento che può produrre risultati straordinari. Possono incoraggiare l’autoaccettazione e l’autostima del figlio. Possono promuovere il suo sviluppo e agevolare la realizzazione del potenziale di cui è geneticamente dotato. Possono accelerare il suo passaggio dalla dipendenza all’indipendenza e all’autocontrollo. Possono aiutarlo a imparare a risolvere i problemi che inevitabilmente la vita gli presenterà, e dargli la forza per affrontare costruttivamente le delusioni e le sofferenze dell’infanzia e dell’adolescenza.

Di tutte le conseguenze dell’accettazione, la più importante é che il figlio si sente amato. Accettare l’altro così com’è, è veramente un atto d’amore; sentirsi accettati significa sentirsi amati. La psicologia sta solo adesso cominciando a prendere atto dell’immenso potere insito nel sentirsi amati: è un sentimento che promuove la crescita mentale e fisica, ed è forse l’agente terapeutico più efficace.

(Thomas Gordon, Genitori efficaci, edizioni La meridiana)

La disciplina che non divide

Nell’ambito del ruolo genitoriale, è tipico pensare alla disciplina come punizione, ma nei suoi significati più profondi ce ne sono altri: come formare, riportare il controllo, mettere ordine. Non vi è dubbio che i bambini abbiano bisogno di disciplina, ma dobbiamo assicurarla senza danneggiare la relazione. La disciplina non deve e non ha alcun bisogno di essere antagonistica. Non è colpa dei nostri figli se sono immaturi o sono in balia di impulsi che non riescono a gestire. Nella nostra cultura concentrata sui risultati a breve termine, ci preoccupiamo solo dell’obbedienza. Tuttavia, se comprendiamo le esigenze di attaccamento e teniamo conto della vulnerabilità dei nostri figli, l’imposizione di sanzioni, le conseguenze punitive e la privazione di privilegi sono controproducenti, perché i castighi sviluppano una relazione antagonistica e inducono indurimento emotivo. Mettere un figlio in castigo per insegnargli una lezione, contare fino a tre per essere obbediti, sono tattiche che mettono a dura prova la relazione. Quando ignoriamo un bambino che è stato preso da un accesso di stizza, o lo isoliamo perché si è comportato male, o gli neghiamo il nostro affetto, minacciamo il suo senso di sicurezza. La discipina per un genitore, è quella di riuscire ad agire nel contesto della connessione con lui.

Cosa fare allora? Alcuni approcci ci vengono naturali se ci preoccupiamo meno di cosa fare e restiamo consapevoli del legame di attaccamento. Quando invece ci concentriamo sul comportamento, rischiamo di indebolire le basi stesse del nostro potere, ossia la relazione con i figli.

I sette principi della disciplina naturale

Usiamo la connessione, non la separazione, per rimettere in riga il bambino.

La separazione è un insieme di metodi comportamentali che prevedono azioni verso i figli che sono alternative al classico castigo, come isolare, ignorare, trattare con freddezza, privare dell’affetto. Sottoporre un bambino ad esperienze di separazione non necessarie, anche se fatte con le migliori intenzioni, ha un costo molto alto: l’insicurezza del bambino. L’alternativa positiva alla separazione è il legame. Il legame è la fonte del nostro potere e della nostra influenza genitoriale. La pratica di fondo che deriva da questo mutamento nel modo di pensare è: “prima connetto e poi dirigo.” Ossia, il genitore deve avere la volontà di connettersi prima di formulare una qualunque richiesta precisa al bambino. Che si tratti di un bambino molto piccolo o di un adolescente recalcitrante, è necessario che il genitore lo porti vicino a sé, ristabilendo la vicinanza emotiva prima di aspettarsi ubbidienza. I risultati possono essere sbalorditivi.

Quando sorge un problema, lavoriamo sulla relazione, non sull’incidente.

Alcuni comportamenti ci toccano sul vivo e ci mettono a dura prova la nostra capacità di  mantenere l’attaccamento ai figli. In cima alla lista ci sono l’aggressività e a controvolontà. Se siamo destinatari di un insulto, di espressioni di odio, o un’aggressione fisica, la sfida immediata è di sopravvivere all’attacco senza infliggere un danno alla relazione. Non è questo il momento di commentare la natura del comportamento o il suo impatto doloroso. E non è neppure il momento di lanciare minacce, spedire il bambino in isolamento o di infliggere un danno alla relazione. Concentrarci sulla frustrazione, anziché prendere l’attacco in modo personale, spesso ci sarà d’aiuto: “sei arrabbiato con me?”, “Questo non ti piace, eh…” Per preservare la relazione efficace, dobbiamo far capire che la relazione non è in pericolo.  Al momento opportuno, metteremo in atto la nostra promessa di chiarire le cose.

Quando le cose vanno storte per il bambino, tiriamo fuori le sue lacrime anziché cercare di insegnargli una lezione

Un bambino ha molto da imparare: condividere la sua mamma, far spazio ad un fratello, gestire la frustrazione e il disappunto, convivere con l’imperfezione, abbandonare le pretese, rinunciare ad essere al centro dell’attenzione, accettare un no. Per facilitare l’adattamento, il genitore dovrà scegliere la danza che conduce il figlio alle lacrime, al lasciar andare, e al senso di pace che conduce il figlio alle lacrime, aiutandolo a trovare le lacrime dietro la frustrazione. Il proposito non dovrebbe essere quello di impartire una lezione, ma di muovere dalla frustrazione alla tristezza. In queste situazioni si possono dire frasi come: “E’ tanto dura quando le cose non funzionano, vero?”, “So quanto volevi che succedesse”, “Non è ciò che ti aspettavi”.

Sollecitiamo le buone intenzioni invece di pretendere i buoni comportamenti

Il quarto cambiamento consiste nel modo di pensare la disciplina che richiede di spostare la concentrazione dal comportamento alle intenzioni. Il nostro compito come genitori dovrebbe essere quello di esortare nel bambino le buone intenzioni. Ad esempio, se sapete che incontrerete resistenza al momento di uscire, richiamate a voi il bambino in anticipo e sollecitate l’intenzione di venire quando direte che è ora di uscire con frasi come: “Sarai pronto a metterti le scarpe quando ti dirò di uscire?”. Non stiamo dicendo che sollecitare le buone intenzioni porterà automaticamente al comportamento auspicate, ma bisognerà pur cominciare da qualche parte. Nel sollecitare i buoni propositi, cerchiamo di attirare l’attenzione non sulla nostra volontà, ma su quella bambino. Invece di “voglio che tu…”, “ho bisogno che tu…”, “è necessario che tu…”, “ti ho detto di…”, “devi…”, suscitare una dichiarazione di intenti o almeno un cenno affermativo della testa: “posso contare su di te per…?”, “ti va di provarci?”, “pensi di riuscirci?”, “sei pronto per…?”, “cercherai di ricordarti?” Sollecitare le buone intenzioni trasforma i bambini da cima a fondo. E ciò che si ottiene ottiene è probabile che non si otterrà in nessun altro modo. Se non riusciamo a ottenere un successo iniziale nel sollecitare le buone intenzioni, significa che il bambino o non è abbastanza maturo, o non siamo abbastanza persuasivi, oppure esistono problemi nella relazione di attaccamento.

Tiriamo fuori i sentimenti eterogenei invece di cercare di fermare il comportamento impulsivo.

Tentare di fermare il comportamento impulsivo con frasi come: “Smettila di picchiarlo!”, “Non interrompere“, “Finiscila!”, “Lasciami in pace“, “Non essere così agitato!”, “Non fare lo sciocco“, “Smettila di dare fastidio!” è come mettersi di fronte ad un treno in corsa ed ordinare di fermarsi. Quando il comportamento del bambino è guidato dall’istinto e dalle emozioni, c’è poca possibilità di imporre l’ordine attraverso lo scontro o urlando dei comandi. Piuttosto che cercare di rivolgersi al comportamento, risvegliamo alla coscienza del bambino, pensieri e impulsi che possono entrare in conflitto con l’impulso di aggredire. Ad esempio facendo affiorare alla coscienza forti sentimenti di attaccamento, di voler piacere o il desiderio di essere all’altezza. Perché è sempre più saggio ricordare prima al bambino gli impulsi mitiganti e poi le emozioni incontrollate che lo hanno trascinato in una situazione difficile, ad con frasi come: “Ora stiamo molto bene insieme. Mi ricordo stamattina che non eri molto contento con me. Anzi eri così arrabbiato che hai fatto il diavolo a quattro!”. Oppure “E’ incredibile come si possa essere tanto arrabbiati con le persone a cui si vuole bene!”. Quindi la strategia è quella non di dare un taglio al repertorio comportamentale (che è profondamente associato agli impulsi associati alla vergogna, all’insicurezza, alla gelosia, alla possessività, alla paura, alla frustrazione, alla colpa, alla controvolontà, al terrore e alla rabbia), ma semplicemente di aggiungere qualcosa alla coscienza che, se necessario, tenga l’impulso in questione sotto controllo.

Quando si ha a che fare con un bambino impulsivo, orchestriamo il comportamento desiderato anziché pretendere maturità

Ci sono bambini che hanno problemi di autocontrollo e non sono in grado di riconoscere l’impatto del proprio comportamento o di anticiparne le conseguenze. Mancano di empatia, ossia sono incapaci di considerare il punto di vista dell’altro contemporanea mente al proprio. Sono spesso giudicati insensibili, egoisti, non collaborativi, maleducati e noncuranti. Percepirli in questo modo però significa solo predisporci a farci irritare dalla loro condotta ed avanzare richieste che non verranno mai soddisfatte. D’altronde, non possiamo costringere i nostri figli ad essere più maturi di quello che sono neppure dicendogli all’infinito che devono crescere. Anziché pretendere che esibiscano spontaneamente un comportamento maturo, potremmo coreografare noi il comportamento desiderato. Quando i bambini non sono ancora in grado di cavarsela da soli, le loro azioni devono essere orchestrate da un adulto che si metta nella posizione di suggeritore: “Ora tocca a papà a parlare”, “Ora è il turno di Bruno”, “Ecco, il gattino si accarezza così”, “Se hai un abbraccio per la nonna, ora sarebbe proprio il momento di darglielo”. Però prima di passare alla guida, si richiamerà a sé il bambino.

Se non si può cambiare il bambino cerchiamo di cambiare il suo mondo

Quando i tentativi ragionevoli di disciplinare il comportamento non funzionano, la risposta non è una disciplina più severa, ma una disciplina diversa. Poiché le tecniche coercitive sono controproducenti, veniamo all’ultimo degli strumenti che appartengono alle tecniche di disciplina naturale. L’intento non è quello di estirpare il comportamento cattivo, ma di alterare le esperienze che lo fanno sorgere. Ossia, modificare le situazioni e le circostanze che scatenano il problema comportamentale. Per superare il problema del comportamento del bambino ostinato e testardo, basta riconoscere che il bambino si lascia semplicemente trascinare dai propri impulsi. Ad esempio, se riconoscessimo che un bambino è incapace di gestire la frustrazione che prova, tenteremmo di modificare le circostanze che lo rendono frustrato. Se vediamo che un bambino si rifiuta di fare ci che gli viene chiesto, ma comprendessimo che il suo essere oppositivo è stimolato dalla pressione che sente gravare su di sé, ridurremmo la pressione che stiamo esercitando. Se considerassimo un bambino bugiardo, forse affronteremmo le sue bugie con modi giudicanti e severi. Ma se avessimo la saggezza di riconoscere, che un bambino cancella la verità, solo perché è troppo insicuro del nostro amore per rischiare la nostra ira o il nostro disappunto, faremmo tutto quanto è in nostro potere per ristabilire in lui un senso di assoluta sicurezza.

Meno i bambini avranno bisogno di disciplina, più ogni metodo sarà efficace. L’uso di consuetudini e routine è formidabile per mettere ordine nell’ambito del bambino, e così anche nel suo comportamento. Le buone abitudini minimizzano la coercizione e il bisogno di comandare. Ad esempio, un’abitudine molto importante, è di avere un luogo ed un tempo per la lettura ai bambini. Il suo scopo principale è di creare un’opportunità per la vicinanza e un’intimità a tu per tu, e anche per avvicinare il bambino alla lettura senza costrizioni.

(Articolo tratto da: “I vostri figli hanno bisogno di voi” di Gordon Neufeld e Gabor Maté – edizioni Il leone verde).

 

 

 

 

 

Counseling per genitori

L’associazione La Vie En Rose offre ai soci l’opportunità di fare un percorso di counseling con uno dei counsellor che collaborano con la nostra associazione. Il carattere specifico di questo percorso sarà quello di integrare le tradizionali sessioni di  di counseling con l’utilizzo delle essenze floreali ed i rimedi spagyrici idonei a favorire nuove vie d’uscita dalle situazioni problematiche.

Sede degli incontri: Milano – Montevecchia – Domodossola

Per ulteriori informazioni si prega di scrivere all’indirizzo email: oltreifioridibach@gmail.com

Il counseling in Italia oggi è una realtà che si va affermando sempre di più in diversi ambiti:

Si tratta di un intervento fondato sul colloquio e sulle tecniche di ascolto, rivolto alla persona in situazione di disagio. Per disagio si intende un problema circoscritto che non necessita di un lavoro di ristrutturazione profondo della personalità. Infatti il counsellor non fa diagnosi e non tratta persone gravemente compromesse nella gestione del quotidiano, ma riguarda l’ambito della crisi momentanea e delle sofferenze connesse al ciclo della trasformazioni della vita. Quindi

Il termine counselling deriva dal latino e si può tradurre in consulo-ere che si traduce in <consolare>, <confortare>, <venire in aiuto>, <prendersi cura> oppure si può tradurre in consulto-are che rimanda al significato di richiedere il <parere di un saggio> o il <consiglio di un esperto>.  Carl Rogers è il considerato il padre del counseling psicologico. Egli sosteneva che il modo migliore di aiutare una persona quando si trova in difficoltà non è quello di dirle esplicitamente cosa fare, ma bensì di aiutarla a comprendere da sola la sua situazione a gestire il problema, prendendo da sola e pienamente, le responsabilità delle proprie scelte e decisioni. Il counselor fa leva sulle capacità, qualità e risorse della persona coinvolta nella situazione problematica, sviluppando nuovi processi di esplorazione, comprensione ed apprendimento con lo scopo di stimolare nuove vie d’uscita.

In questo appunto si differenzia appunto il lavoro del counselor rispetto a quello di altri  professionisti o tecnici risolutori di problemi, grazie appunto alla dimensione <artistica> od <olistica> che fa leva sull’apertura di nuove vie di comprensione allo scopo di trovare nuove vie di comprensione alle problematiche affrontate. La relazione che si viene a creare tra counselor e consultante non è un sistema di conoscenze concettuali e speculative che confluiscono in un metodo definito o in un sistema, bensì si tratta di una modalità di intervento che che possiamo mettere in pratica nelle nostre relazioni quotidiane con gli altri. Anche se non ne siamo consapevoli fino in fondo, quando utilizziamo l’empatia, mentre un amico in difficoltà ci racconta i suoi problemi, ci rendiamo conto che già questo nostro atteggiamento ci permette di fornire sostegno e conforto, sebbene non utilizziamo tutte le abilità del counselor.

Le caratteristiche che permettono di identificare la pratica del counseling sono, innanzi tutto, il clima di accoglienza che riusciamo a creare, l’accettazione incondizionata e la comprensione dell’altro, l’ascolto attivo ed il buon uso delle domande.

Un bravo counsellor è colui che all’interno di uno stato di comprensione empatica, è in grado di accettare l’altro nella sua globalità, senza giudizio. Senza giudizio, perché si sta guardando il suo mondo con i suoi occhi, si è nei suoi panni, nel suo cuore, si è con lui.

La relazione d’aiuto è una forma di intercomunicazione in cui si crea un ponte tra chi assiste e chi è assistito, che fa sì che queste due personalità diventino un noi; ciò che produce una sensazione di solidità affettiva… L’operatore deve fornire un tipo di relazione priva di ogni pregiudizio e ansia. Su questa base si costruirà l’azione cooperativa per risolvere il problema.

Un ulteriore obiettivo del counseling è favorire nelle persone la capacità di riattivarsi, di recuperare consapevolezza, equilibrio psicofisico, di gestire lo stress e gli stati emotivi in situazioni dove ci si espone fortemente, di implementare le risorse, di potenziare l’autostima.

 

Genitori e Counselor quasi perfetti. In viaggio dall’illusione alla realtà: i doni dell’imperfezione

 

L’obiettivo del seminario è quello di favorire il contatto con la saggezza originaria dell’organismo  attraverso il riconoscimento e la sospensione delle interferenze mentali ed egoiche, per abbandonare l’idea di essere, o diventare, perfetti e iniziare a essere se stessi. Temi trattati: Essere genitori, essere counselor: dal Sé ideale al Sé reale. I circoli viziosi: la tirannia delle idealizzazioni e delle illusioni, i blocchi emozionali, le energie vitali imprigionate nei dover essere. Il circolo virtuoso psicosomatico e il mantenimento del benessere. Autoregolazione e risorse. I doni dell’imperfezione. 

 

Data: 7-8 ottobre 2017

Orario: 9.30-13.00; 14.30-18.00

 

Conduce il seminario: Valentina Folla, supervisor e trainer counselor AssoCounseling

 

Sede del Corso e Segreteria organizzativa:

Associazione REF, via Morimondo 5, Milano, tel. 02.36553120, fax 02.36553121; info@associazioneref.org; www.associazioneref.org

Costo: € 180,00 (+ IVA).

I posti sono limitati e si accettano iscrizioni fino a completamento dei posti disponibili.

La partecipazione fornisce 14 crediti per i Counselor professionisti in aggiornamento. Inoltre il seminario fornisce 14 crediti formativi per proseguire con i nostri corsi di Counseling Integrato CoMeTE (annuali o triennali).